Il diritto di prelazione ereditaria si trasmette agli eredi?

L’articolo 732 del codice civile attribuisce a ciascun coerede il diritto di prelazione nei confronti degli altri coeredi. Dunque se uno di loro ha intenzione di vendere la quota dell’eredità (non la quota di un singolo bene compreso in più largo asse ereditario) a un estraneo, deve notificare la proposta di alienazione agli altri coeredi, che hanno diritto di essere preferiti, a parità di condizioni, purché lo esercitino nel termine di sessanta giorni. Se omettesse di farlo, i coeredi avrebbero il diritto di riscattare la quota per tutto il tempo in cui dura la comunione ereditaria.

Alla base della norma, dunque, c’è la distinzione tra coeredi ed estranei: per estraneo non si deve intendere qualcuno che non aveva legami familiari con il defunto, ma colui che non è partecipe della comunione ereditaria, ad esempio perché non è stato incluso nel testamento.

Ma, nel caso che durante la comunione muoia un coerede, i suoi successori devono considerarsi estranei a loro volta?

Dal quesito ovviamente restano fuori sia coloro che succedono per rappresentazione (poiché subentrano nella stessa posizione che aveva l’ascendente) sia coloro che subentrano per sostituzione, dato che sono coeredi al posto del designato che non ha potuto o voluto accettare l’eredità.

In termini letterali, i successori del coerede non sono coeredi a loro volta: sono appunto successori del coerede, e su queste basi dovrebbero considerarsi fuori dal perimetro applicativo della norma. Il loro carattere di estraneità non incide certo sull’acquisto (la prelazione riguarda solo i trasferimenti inter vivos) ma, una volta che hanno acquisito la quota, escluderebbe per loro la prelazione, sia dal lato attivo del diritto che dal lato passivo dell’obbligo.

In entrambi i sensi si è pronunciata la Corte di Cassazione. Nella sentenza 26/11/2015 n. 24151, possiamo leggere che dato “il carattere personale e intrasmissibile del diritto di prelazione previsto dall’art. 732 c.c., il soggetto che succede al coerede retraente può proseguire il giudizio già introdotto dal o nei confronti del retraente, ai sensi dell’art. 110 c.p.c., al fine di accertare l’avvenuto riscatto. Non può esperire, quindi, il diritto di riscatto in via autonoma e diretta”.

Allo stesso tempo, con la sentenza 1654/2019 la Suprema Corte afferma che la vendita di una quota ereditaria da parte di colui che l’ha acquistata per successione dal coerede “non è passibile di retratto successorio, giacché tale istituto costituisce una deroga alla libera disponibilità della quota in costanza di comunione e pertanto la relativa previsione va intesa in senso letterale, non potendo il diritto in questione essere esercitato da o verso soggetti diversi dai primi coeredi”.

Ora, il sistema della prelazione ereditaria rappresenta probabilmente un relitto storico, ed è comprensibile che si tenda a interpretarlo in senso restrittivo (e anzi, tale criterio andrebbe perseguito con maggiore costanza, in particolare quando si tratti della vendita di un bene che sin dall’inizio, o per effetto della vendita degli altri che componevano l’asse, sia rimasto l’unico dell’asse ereditario). Finché tuttavia fa parte del sistema bisogna pur garantirgli una coerenza e non farla dipendere dalla pura sorte.

Invece, la sopravvivenza anche di qualche secondo di uno dei coeredi, con l’apertura della sua successione, apre una crepa insanabile nella comunione ereditaria che si vorrebbe preservare attraverso la prelazione: da quel momento esisterebbe una quota-breccia in grado di spalancare le porte della comunione a qualsiasi estraneo in senso assoluto, cioè nemmeno il successore del coerede, ma l’avente causa a titolo oneroso da quest’ultimo. È vero che la stessa situazione si verificherebbe nel caso che una quota fosse stata ceduta dal coerede con un atto inter vivos, e magari di seguito ulteriormente circolata: ma in quel caso, non esercitando la prelazione, sarebbero stati i coeredi ad assumere questo rischio. Nel caso della successione nella quota, invece, non sarebbe ravvisabile alcun elemento volontaristico.

Che senso avrebbe, a quel punto, preservare la comunione tra i coeredi superstiti? Proprio nessuno. Mi pare dunque che ci si trovi di fronte a un bivio: o si legge estensivamente la parola “coeredi”, supponendo che lo spirito della norma spinga in senso conservativo quando si tratti di subentro al coerede per via successoria; oppure si conclude che l’articolo 737 non solo operi per i coeredi ma presupponga che il patrimonio sia effettivamente indiviso solo tra costoro, e che in mancanza di questo secondo requisito la comunione ereditaria si trasformi in una comunione ordinaria, facendo decadere per tutti gli obblighi e i vincoli posti dalla norma.

Notaio Remo Bassetti

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