Il termine inglese barter è la traduzione del nostro baratto, ma il circuito di barter chiama in causa una realtà più complessa: in una primissima descrizione, quella di una sorta di associazione nella quale tutti gli aderenti accettano di essere retribuiti per le loro prestazioni, non direttamente, cioè da colui che le riceve, ma “in natura” a mezzo di altre prestazioni da parte di tutti coloro che fanno parte dell’associazione.
Un esempio di questo genere sono le cosiddette banche del tempo: Renzo darà un’ora di ripetizione di dialetto lombardo a Lucia che non la pagherà. Però Lucia potrà pretendere da Perpetua, che è un’ottima cuoca, un’ora di lezione di cucina gratuita. E Perpetua, a sua volta, potrà esigere che Lucia le funga per un’ora da baby sitter. In tutto, ovviamente, in tempi diversi, e dando per presupposto che Renzo, Lucia e Perpetua siano tutti affiliati alla “banca del tempo”.
Questa forma di aiuto reciproco si realizza tra privati e non determina un’attività d’impresa. Si tratta di cortesie scambiate tra persone che trovano più vantaggioso (o anche solo più divertente) migliorare le proprie opportunità di ricevere servizi senza spendere un euro ma rendendosi disponibili per offrire una parte del loro tempo agli altri.
La banca del tempo è un ottimo esempio per capire come funziona il corporate barter, dove per grandi linee accade la stessa cosa, solo che a scambiarsi prestazioni non sono privati ma imprese e quindi quello che le imprese “compensano” non è il loro tempo ma il proprio fatturato.
Potremmo ripetere pari pari l’esempio di prima, immaginando che le persone in questione siano tutte libere professioniste dotate di partita Iva e che ognuna di loro maturi, per la propria prestazione, il diritto a ricevere dieci euro più iva all’ora. Anche in quel caso nessuna di loro dovrà usare moneta liquida: al termine degli scambi, ognuna di loro avrà un fatturato di dieci euro (su cui dovrà ricevere e poi versare l’Iva), e il vantaggio sarà quello di aver potuto movimentare i servizi anche in assenza di liquidità.
Ovviamente, la questione nella pratica è più complicata, perchè in un circuito di corporate barter gli imprenditori impegnati saranno più di tre e il valore delle singole prestazioni difficilmente sarà coincidente. Ma il risultato finale sarà il medesimo: alla fine il partecipante al circuito dovrà ricevere prestazioni di valore uguale al valore di quelle che ha eseguito. Per comodità si dirà che i partecipanti pagano in una certa moneta: uno dei nome che attualmente riscontra più successo è quello di “eurocredito”. Ma attenzione: l’eurocredito è una moneta “complementare” (vedremo poi meglio cosa questo significhi) e non una moneta “virtuale”. Chi compra un bene o un servizio in eurocredito non sta versando alcuna moneta ma solo acquistando diritti di credito nei confronti di una serie di soggetti (tutti quelli che partecipano al circuito di corporate barter). dai quali però potrà esigerli allo stesso modo, cioè non in denaro liquido. Potrà quindi pretendere che quei soggetti, a loro volta, gli cedano beni e servizi senza chiedergli materialmente un esborso, sino a concorrenza del credito che lui aveva maturato grazie alla sua cessione del bene o del servizio.
Il corporate barter si muove contiguamente ad altre aree, alcune moderne a altre antichissime. In linea di principio ha punti di contatto con la cd. sharing economy, cui appartengono figure come il car sharing o i Gruppi d’Acquisto Solidale, stanti l’impronta collaborativa e la tendenziale concentrazione in economie locali. Ma non necessariamente si collega a un’economia delle decrescita (anzi, costituisce un incentivo al consumo) e può essere visto come un modo per ampliare il proprio business, sia pure con modalità radicalemtne differenti. Al tempo stesso, pur in una dimensione organizzativa atipica, esiste una parentela con il fine mutualistico della società cooperativa, visto che il fine è quello di far ottenere ai partecipanti beni e servizi a mezzo delle loro attività. E’ tuttavia certamente riduttiva la costrizione in uno schema preesistente.
Lo stesso possiamo dire per i singoli scambi che avvengono dentro il circuito. Nessun dubbio che sotto il profilo fiscale si rientri nella permuta, stante l’ampia accezione di quest’ultima ai fini tributari. Però il singolo contratto vive all’interno dello schema associativo e trova in quello la sua causa concreta.
Nei circuiti di corporate barter si sono cominciate, già qualche anno fa, ad assaggiare le potenzialità, che comprendono la possibilità di andare oltre la corresponsione di servizi, trasferendo beni immobili. Anche quote sociali potrebbero essere alienate. Per via del carattere innovativo simili contratti di trasferimento questione richiedono di essere considerati in tutta la loro complessità, e nelle prime fasi ciò non è sempre accaduto, originando ad esempio alcuni equivoci relativamente alla modalità di pagamento o alla compensazione, che è la figura cardine ma non opera nel modo immediato che le è di solito congeniale; e del tutto trascurata in certi contratti è stata la natura di corrispettivo della cessione di crediti pro soluto.
In questo video completo la descrizione generale del corporate barter e mi affaccio sulla casistica del trasferimento di beni immobili all’interno del circuito.